In uno stato d’eccezione come quello bellico nessuno può sentirsi al sicuro, questo è indubbio. Per coloro che già in situazioni non emergenziali vivono una condizione socialmente svantaggiosa, però, la guerra è motivo di ulteriore oppressione: la comunità LGBT+ ucraina è un esempio calzante.
Stando alle informazioni raccolte e rese note dall’ILGA-Europe, sono molte le persone queer che non riescono ad abbandonare il paese a causa di difficoltà finanziare o logistiche dovute all’omobitransfobia dilagante nel Paese. Quando la solidarietà è rivolta solo o per lo più a chi viene riconosciuto come simile-a-me, all’Altro spetta un posto solo quando tutti gli altri lo hanno già occupato. In clima di guerra, più che in ogni altro momento, la solidarietà nazionale si arresta all’incontro con l’alterità. La minaccia dell’Altro si manifesta nella pelle nera di uno studente bloccato al confine, così come nei costumi poco conformi di chi, oltre la guerra, diserta la norma sessuale imposta.
L’orgoglio queer non è compatibile con l’orgoglio patriottico: più la distanza dalla norma è evidente e sfacciata, più grande è il disconoscimento. Non mi risulta che in Ucraina vi siano leggi che impediscono l’utilizzo di abiti considerati non conformi al proprio genere ma, dove non arriva l’autorità, arriva la morale del tuo concittadino. Il prezzo più caro lo pagano le soggettività transessuali e intersessuali: l’emergenza bellica aggiunge all’isolamento sociale e alla violenza consuetudinaria un più difficile accesso alle terapie ormonali e ad altre medicazioni fondamentali. Le organizzazioni trans locali provano a recuperare i medicinali cercando l’appoggio di Organizzazioni Non Governative, le tempistiche e gli esiti negativi vanificano però le loro fatiche. Il recupero dei farmaci ormonali è lungo e complesso perché le ONG dovrebbero ricevere le ricette mediche, pagare i medicinali e trasportarli a proprie spese in Ucraina. A rendere ancora più ostica la situazione è poi l’assenza dei medicinali di transizione nei paesi confinanti.
L’attivista e ricercatore ucraino Andriy Maymulakhin nel suo report sulla situazione delle persone ucraine LGBT+ individua fra le cause dell’omobitransfobia ucraina innanzitutto un’assenza di benessere materiale, la quale crea rabbia che gli abitanti sfogano spostando le colpe su soggetti e gruppi sociali già marginalizzati (la LGBT-fobia, difatti, dilaga al pari della xenofobia e del razzismo). Una seconda causa è senza dubbio data dalla forte morale religiosa su cui si fondano la famiglia tradizionale e lo Stato stesso. Qualsiasi esperienza alternativa a quella della famiglia eteropatriarcale, attenendoci al report dell’autore, non sembra concepibile dal cittadino ucraino, probabilmente anche e soprattutto a causa della mancanza di informazione rispetto a determinate tematiche. Gli ucraini non sono sufficientemente informati sulle persone di orientamento non eterosessuale. La maggioranza nutre percezioni stereotipate e prevenute sulle minoranze sessuali: giudica le persone LGBT+ sulla base delle “performance scandalose” che i personaggi dello show-business esibiscono in tv per lucrare sull’immagine comica e mainstream del queer. La famiglia catto-patriarcale censura il discorso queer nell’arena politica, tollera però l’omosessualità e persino una sua teatrale ostentazione nella performance televisiva: il vestiario eccentrico e poco virile dello showman in prima serata diverte la sacra famiglia, poiché non la sovverte ma la intrattiene: stuzzica la norma, ma non la rompe.
A ostracizzare le rivendicazioni queer dalla dimensione politica contribuiscono drasticamente la Chiesa e le sue reti organizzate di sostenitori che fomentano l’odio omobitransfobico sia nelle piazze sia sul web. A partire dal 2003, il movimento ucraino Love against homosexuality (Amore contro l’omosessualità) manifesta regolarmente nelle piazze per veicolare messaggi quali “l’omosessualità è AIDS”, “l’omosessualità è peccato” e per ricordare che “l’Ucraina è un paese cristiano”.
Quella ucraina rimane una società fortemente etero-cis-patriarcale dove nel corso degli ultimi venti anni i gruppi di estrema destra si sono sentiti in dovere di radicalizzare l’omobitransfobia all’interno della società, sebbene non vi sia mai stata nemmeno l’ombra di un’iniziativa capace di minacciare realmente l’ordine machista costituito (sarebbe assurdo pensare a un’iniziativa legislativa a beneficio della comunità LGBT+ laddove, stando a un’indagine del 2016 svolta dal Pew Research Center, l’86% della popolazione considera l’omosessualità socialmente inaccettabile).
Negli ultimi anni l’isolamento sociale della comunità LGBT+ nella società ucraina ha incoraggiato i gruppi neonazisti ad attaccare la comunità con ogni mezzo: se di giorno l’associazionismo pro-life manifesta nelle piazze contro una inesistente propaganda queer, di notte i militanti di estrema destra si sentono liberi di colpire con l’azione diretta i centri di aggregazione LGBT+ senza temere di mettere a repentaglio la vita delle persone presenti. Nel 2014, il Pomada (club gay di Kiev) è stato attaccato con petardi e granate fumogene da una ventina di neonazisti. Solo pochi mesi dopo, nello stesso anno, militanti provenienti dalla medesima area politica irruppero al Zhovten, il cinema più antico di Kiev, appiccandovi il fuoco durante la proiezione di un film a tema LGBT+.
Nonostante il vento sempre sfavorevole, un movimento LGBT+ è riuscito a strutturarsi in Ucraina e sembra pian piano maturare. Lo scorso anno il Pride di Kiev portò in piazza 7000 partecipanti, i quali si mobilitarono non senza preoccupazioni: se nell’ultima occasione i gruppi neonazisti e religiosi si riunirono in una piazza vicina per contestare le rivendicazioni queer, negli anni precedenti la marcia era stata interrotta dal lancio di razzi e petardi rinforzati con pezzi di metallo dai contro-manifestanti di estrema destra.
Nel corso dell’ultimo mese alcuni attivisti gay hanno messo da parte i cortei e preso in braccio le armi per rispondere militarmente all’invasione russa. In realtà una milizia armata LGBT+, la Brigata Unicorno, si formò già anni fa durante il conflitto nella regione del Donbass. Questa scelta, se non può essere condivisa da chi opta per la diserzione, può essere per lo meno spiegata prendendo in esame alcuni fattori.
L’Osservatorio Balcani e Caucaso ha dato voce ad alcuni ragazzi del posto che hanno raccontato come è cambiata la vivibilità delle persone LGBT+ nel Donbas nel corso degli ultimi anni. Sembra che prima della guerra la morale conservatrice condivisa dagli abitanti non rappresentasse un serio limite per la libertà di espressione e di aggregazione delle persone non eterosessuali e non cisgender. La situazione iniziò a prendere una piega inquietante nel 2014, quando alcuni leader separatisti cominciarono a diffondere nella regione tesi secondo cui “diventare omofobi dovrebbe essere compito di ognuno di noi [perché] se c’è la lobby degli omosessuali deve esserci anche una lobby degli omofobi”. In breve tempo, nelle aree controllate dai separatisti russi la violenza LGBT-fobica da consuetudine si è tradotta in legge scritta, mentre le relazioni omosessuali sono diventate reati perseguibili. Nella vicina Repubblica separatista di Doneck, un comma della Costituzione definisce che “non viene riconosciuta e permessa alcuna forma di unione perversa tra persone dello stesso sesso e qualsiasi [di tali unioni] è soggetta a penalità da parte della legge”.
Le asprissime discriminazioni che colpiscono i generi e le sessualità dissidenti nelle aree controllate dai separatisti filorussi non sono che un riflesso della repressione messa in atto da Putin nella Federazione Russa, equiparabile benissimo a quella di un regime fascio-islamico. La legge putiniana contro la propaganda gay rende impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività volta alla tutela delle minoranze sessuali: ogni tentativo di espressione viene denunciato come “attività orientata verso la diffusione non controllata di informazioni capaci di avere un’influenza negativa sulla salute, lo sviluppo morale e spirituale e in particolare di formare una rappresentazione deformata del valore sociale legato agli orientamenti sessuali tradizionali e non tradizionali, presso persone che non hanno, a causa della loro età, la possibilità di valutare in modo autonomo e critico una tale informazione”. Insomma, è il sogno dell’associazionismo pro-life di casa nostra che, nella Federazione Russa, rappresenta la realtà: una realtà dove l’attivismo LGBT+ è illegale e punito con la detenzione politica, la tortura nelle carceri e, in alcuni casi, con la morte, come successe nel 2019 a Elena Grigorieva.
Un pensiero va a Elena e a tutti e tutte le attiviste ribelli che dall’Ucraina alla Federazione Russa subiscono quotidianamente la violenza omobitransfobica esercitata dai governi, fomentata dalla Chiesa e riprodotta dai gruppi neonazisti fra l’indifferenza dei cittadini e delle istituzioni.
Cristian Ruggieri
FONTI
ILGA-Europe, Ukraine war: LGBTI people in the context of armed conflict and mass displacement
ILGA-Europe, Medications needed by trans and intersex people, prepared by ILGA-Europe
Andriy Maymulakhin, Olexandr Zinchenkov, Andriy Kravchuk, Ukranian homosexuals and society: a reciprocation. Review of the situation: society, authorities and politicians, mass-media, legal issues, gay-community
Osservatorio Balcani e Caucaso, LGBT nel Donbass: ritorno all’era sovietica